Suggerito da mary49 Vincenzo Cardarelli, il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, nacque a Corneto Tarquinia, un piccolo paese di provincia, dove suo padre (Antonio Romagnoli), marchigiano d’origine, gestiva il buffet della stazione ferroviaria e qui trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza Come autodidatta vaga per tutti i campi della cultura, cercando di apprendere il maggior numero possibile di cose, di colmare i vuoti interiori, di allargare all’infinito l’orizzonte intellettuale.Si sente simile ad un gabbiano, sballottato da un luogo all’altro, preso nel vortice di un perpetuo volo e questa sensazione di eterna mobilità, questo continuo vagabondare è sentito profondamente dal poeta che non riesce a capire dove poter trovare pace in un mondo che non gli prospetta mai nulla di certo.Questo suo errabondare, senza meta e senza fine, a volte regala un senso di ebbrezza ma in fondo fa invidiare coloro che trovano, in un determinato luogo, la pace, la quiete. La vicenda delle stagioni, il fascino della bellezza adolescenziale sono innalzati a paradigmi del destino dell’uomo. Ecco allora delinearsi a chiare lettere il profilo di un uomo inquieto che in un perenne dialogo con la memoria acquista sempre più una dolente coscienza del vivere. Vincenzo Cardarelli realizza un esempio mirabile di prosa d’arte per il costante impegno stilistico mirante a mantenerle sempre su un tono di essenziale sobrietà; per certi toni nella rievocazione di memorie d’infanzia o di luoghi trasfigurati dalla memoria o resi suggestivi da dati culturali e letterari; e per ultimo il fascino del canto che spesso le anima. Quando Cardarelli scopre la sua vocazione letteraria, tutto il suo tempo e le sue preoccupazioni vengono assorbite dalle ricerche stilistiche e poetiche. Nasce il suo universo poetico costituito dalle sensazioni, dalle memorie, dai simboli, dalle evocazioni; le persone, i paesaggi, gli oggetti non hanno una vita propria ma esistono soltanto in virtù della forza evocatrice del linguaggio, dell’ordine e del movimento delle immagini e delle parole. Si muove tra la ricerca del massimo effetto, la proiezione della realtà in un mondo favoloso e la trasposizione simbolica. Cardarelli trova finalmente la sua esatta misura nelle prose di memoria e nelle elegie evocative. Negli ultimi anni inquieti della sua esistenza, densa di angoscia e di paura, il poeta si volge indietro a considerare la sua vita e la sua opera che si identificano con una Tarquinia da «favola» e non certo con quella vera. Questo scritto vuole essere solo una introduzione a Vincenzo Cardarelli.Al lettore più esigente per placare la sete consiglio di andare direttamente alla fonte e cioè di leggere l’opera del Cardarelli con un nuovo spirito di ricerca.
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Liguria
È la Liguria terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla pulita,
s’avvivano di pampini al sole.
È gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.
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Alla morte
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell’orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppe volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pure la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte, non mi ghermire,
ma da lontano annunciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.
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AMORE
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei così m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
più e più insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, più per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
Quel fatale e prescritto momento
che ci diremo addio
è già in ogni distacco
del tuo volto dal mio.
Cosa lieve è il tuo corpo!
Basta che io l’abbandoni per sentirti
crudelmente lontana.
Il più corto saluto è fra noi due
un commiato finale.
Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo
così, senza speranza.
Se tu sapessi com’è già remoto
il ricordo dei baci
che poco fa mi davi,
di quel caro abbandono,
di quel folle tuo amore ov’io non mordo
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Autunno
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
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Gabbiani
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
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Ritratto
Esiste una bocca scolpita,
un volto d’angiolo chiaro e ambiguo,
una opulenta creatura pallida
dai denti di perla,
dal passo spedito,
esiste il suo sorriso,
aereo, dubbio,lampante,
come un indicibile evento di luce.
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Amicizia
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam riaspettati al passo,
bestie caure,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non aver ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
Da mary49
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La nostra amica Porzia ci presenta un grande poeta dei primi del novecento:
Cesare Pavese
La poesia di C. Pavese si potrebbe collocare tra realismo e simbolismo.
L’aspetto più vistoso del suo appartenere al Decadentismo è dato dalla crisi del rapporto tra arte e vita in quanto avendo smarrito insieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, diventa incapace di affrontare l’esistenza,e gravemente disagiato nei rapporti umani . Egli diceva:” Ho imparato a scrivere ma non a vivere e quando scrivo mi sento normale , equilibrato e sereno.
Cesare Pavese è annoverato tra i migliori poeti dell’inizio del ‘900. La sua infanzia non fu molto felice anzi fu segnata dal dolore della morte di una sorellina e di due fratellini. A soli sei anni rimase orfano di padre, per cui la mamma dovette sostituirsi al marito nell’educazione dei figli.
Nonostante Cesare appartenesse ad una famiglia agiata nel 1916 si trasferirono per desiderio di sua madre in un paesino del comune di Torino. Fu lì che egli compì i suoi studi ginnasiali. In quel periodo si innamorò della letteratura così tanto che cominciò a frequentare la Biblioteca Civica e a scrivere i primi versi. Portò a termine gli studi liceali nel 1926 e scrisse delle poesie che gli furono respinte dalla rivista “Ricerca di poesie” intraprese gli studi universitari e nel 1930 presentò la sua tesi di laurea “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Delusione impensabile, quando il professor Federico Oliviero che doveva ascoltare la sua tesi, la rifiutò perché improntata all’estetica crociana e quindi era troppo liberale per l’Età Fascista.
Per fortuna il professor di letteratura francese si offrì di ascoltarla e Pavese si laureò con 108/110.
Dopo la laurea il poeta perse anche sua madre e per guadagnare cominciò a svolgere la professione di traduttore. Non contento impartì lezioni private e insegnò in una scuola serale. Intanto continuò a scrivere poesie e conobbe una donna con la quale iniziò una relazione sentimentale.
Di lei scrisse: “…
L’ho incontrata una sera una macchia più chiara
Sotto le stelle ambigue nella foschia d’estate
Era intorno il sentore di queste colline
Più profondo dell’ombra e d’un tratto suonò
Come uscisse da queste colline, una voce più netta
E aspra insieme, una voce di tempi perduti …
Nel 1950 ricevette il meritato Premio Strega per l’opera “ La bella estate” . si innamorò di nuovo di Romilda Ballati, alla quale dedicò: “ Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
La delusione avuta da Romilda e la sua depressione lo portarono a compiere l’ultimo gesto della sua vita. Si suicidò in una camera d’albergo dove lo trovarono senza vita per aver ingerito numerosi sonniferi.
Cesare Pavese ci ha regalato davvero delle liriche dirette al cuore … peccato che non tutti riescono a leggerle o a condividerle.
Poesie tratte da:
La terra e la morte
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.
27 ottobre 1945
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
29 ottobre 1945
Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l’alba è silenzio.
E sei come le voci
della terra l’urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo ; le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.
Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov’è entrato una volta
ch’era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come il cortile antico
dove s’apriva l’alba.
5 novembre 1945
Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.
9 novembre 1945
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno dette un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
19-20 novembre 1945
Poesie tratte da: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
(11 marzo – 11 aprile ’50)
Hai un sangue, un respiro.
Sei fatta di carne
di capelli di sguardi
anche tu. Terra e piante,
cielo di marzo, luce,
vibrano e ti somigliano
il tuo riso e il tuo passo
come acque che sussultano
la tua ruga fra gli occhi
come nubi raccolte
il tuo tenero corpo
una zolla nel sole.
Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra.
Ne conosci i sapori
le stagioni i risvegli,
hai giocato nel sole,
hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto
primaverile, terra,
germogliante silenzio,
tu hai giocato bambina
sotto un cielo diverso,
ne hai negli occhi il silenzio,
una nube, che sgorga
come polla dal fondo.
Ora ridi e sussulti
sopra questo silenzio.
Dolce frutto che vivi
sotto il cielo chiaro,
che respiri e vivi
questa nostra stagione,
nel tuo chiuso silenzio
è la tua forza. Come
erba viva nell’aria
rabbrividisci e ridi,
ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.
21 marzo 1950
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
22 marzo 1950
Ho scelto questa poesia di Cesare Pavese perché mi è molto cara, in quanto mi ricorda, a parte un triste evento, ma anche un grande amore della mia vita durato fino alla morte e oltre la morte .
Si ,questa poesia è talmente significativa per me che sulla lapide di mio marito ho fatto incidere queste parole “Verrà la morte ,avrà i tuoi occhi….”perché quando arriverà quel momento per me io non avrò paura di morire ,saranno i suoi occhi che mi chiederanno di seguirlo e per me sarà ritornare a vivere felicemente con la sola persona che ho amato e che amo ancora. Ciao ti abbraccio
Da Porzia
Questa poesia è stata scritta da porzia.mi. Lascia un tuo commento qui
Vorrei poter approfittare dell’opportunità che date per far conoscere una poesia che amo molto, una poesia di Ignazio Buttitta, poeta contemporaneo siciliano, figlio di commercianti, nato a Bagheria (PA) il 19 settembre 1899, che scelse di scrivere le sue poesie in lingua siciliana, ma che per ovvi motivi trascrivo in italiano. Un poeta che ha sempre parlato della sua terra e ha sempre lottato per la conservazione della propria cultura.
Ignazio Buttitta è morto il 5 aprile 1997. Spero gradirete questa poesia.
Non sono poeta
Non posso piangere,
ho gli occhi secchi,
e il mio cuore
è una pietra pesante.
La vita m’ha ridotto
arido e spezzato
come una carrettata di brecciame.
Non sono poeta;
odio l’usignolo e le cicale,
il venticello che carezza l’erba
e le foglie che cadono con l’ali;
amo le bufere,
i venti che disperdono le nuvole
e puliscono l’aria e il cielo.
Non sono poeta,
ma nemmeno un insipido pesce
d’acqua dolce;
sono un pesce selvatico
abituato ai mari profondi.
Non sono poeta
se poesia significa
la luna che pende
e impallidisce le facce dei fidanzati;
la mezzaluna
mi piace quando splende
dentro il bianco dell’occhio del bue.
Non sono poeta;
ma se è poesia
affondare le mani
nel cuore degli uomini che soffrono
per spremerne il pianto e lo sconforto;
ma se è poesia
sciogliere il cappio agli impiccati,
aprire gli occhi ai ciechi,
dare l’udito ai sordi,
rompere catene e lacci e nodi:
Ma se è poesia
chiamare nelle tane e nelle grotte
chi mangia poco e veleno inghiotte;
chiamare gli zappatori
curvati sulla terra
che succhia sangue e sudore;
e strappare
dal fondo delle zolfare
la carne cristiana
che cuoce nell’inferno:
Ma se è poesia
volere mille
centomila fazzoletti bianchi
per asciugare occhi gonfi di pianto;
volere letti morbidi
e cuscini di seta
per le ossa storcigliate
di chi lavora;
e volere la terra
un tappeto di foglie e fiori
che rinfreschi lungo il cammino
i piedi nudi dei poveri:
Ma se è poesia
farsi mille cuori
e mille braccia
per stringere povere madri
inaridite dal tempo e dalla sofferenza
senza latte alle mammelle
e col bambino in braccio:
quattro ossa strette
al petto assetato d’amore:
Datemi una voce potente
perché mi sento poeta:
datemi uno stendardo di fuoco
e mi seguano gli schiavi della terra,
una fiumana di voci e di canzoni:
gli stracci all’aria
gli stracci all’aria
inzuppati di pianto e di sangue.
da Antonino8.Pa
Col permesso di Antonino, aggiungiamo ancora una bellissima poesia di questo grande artista siciliano
LU TRENU DI LU SULI – 1999
Ignazio Buttitta – 1999 – Tratto da: “La mia vita vorrei scriverla cantando”
Traduzione in Italiano
Il treno del sole
Turi Scordu, zolfataro,
abitante a Mazzarino,
con il Treno del sole
si avventura al suo destino.
Che faceva a Mazzarino
se lavoro non ce n’era?
fece sciopero una volta
e lo misero in galera.
Una tana la sua casa,
sua moglie quattro ossa,
e la fame lo cercava
con le carte dell’usciere.
Sette figli e la moglie,
otto bocche e otto pance
e un camion per cuore
caricato di doglianze.
Nel Belgio, invece, ora
lavorava giorno e notte;
alla moglie scriveva:
non mangiate fave cotte.
Con i soldi che ricevi
compra roba e le lenzuola
e le scarpe per i figli
per potere andare a scuola.
Nel Belgio, le miniere,
le miniere di carbone:
sono nere nere nere
come sangue di dragone.
Turi Scordu, un pezzo d’uomo,
quand’è sera dorme solo;
dentro il letto, e i piedi in fuori,
smaniava come un mulo.
Con le donne ci tentava;
ma essendo analfabeta
incantarle non sapeva
con le parole di poeta.
E faceva penitenza,
Turi Scordu, Il nel Belgio:
senza tonaca né mitra
gli pareva un sacrilegio.
Il pensiero, certe volte,
lo portava nella tana,
e il cuore gli sonava
a mortorio la campana.
Che se c’era la minestra
di patate e di fagiuoli,
nella tana c’era festa
per la moglie e i figliuoli.
Come albero strappato
senza foglie né radici,
si sentiva Turi Scordu
quando pensa figli e moglie.
Dopo un anno di patire
finalmente si decise:
«Moglie mia, piglia la roba,
vieni tu in questo paese».
E partirono madre e figli
salutando Mazzarino;
i parenti in appresso
ci facevano festino.
Di cartone la valigia
con la corda per traverso;
il lattante sopra il seno
che succhiava a tempo perso.
Lei davanti, e la covata
degli zingari la segue:
con fagotti e sacchi in mano,
montarozzi sulla schiena.
La covata con la chioccia
quando fu sopra il treno,
non sapeva s’era in cielo…
e nemmeno sulla terra.
Il paese da lontano
ora sale ed ora scende;
e il treno che volava
senza ali e senza penne.
Ogni tanto si fermava
infornando passeggeri:
emigranti zolfatari,
figli e padri con le mogli.
Padri e madri si presentano,
li fa amici la sventura:
gli emigranti una famiglia
fanno dentro la vettura.
«Il mio nome? Rosa Scordu».
«Il paese? Mazzarino».
«Dove andate ?». «Dove andiamo?
Dove vuole il destino».
Quante cose si dicevano!
perché i poveri, si sa,
hanno milioni di guai:
morsicati dalle api!
Quando venne la nottata
dopo Villa San Giovanni
una radio tascabile
grandi e piccoli diverte.
Tutti sentono la radio,
l’ha in mano un emigrante;
i bambini senza sonno
fanno gli occhi grandi tanto.
Rosa Scordu ascolta e pensa,
arrivando; cosa trova…
altra gente e nazione,
una storia tutta nuova.
E si stringe per difesa
il lattante insonnolito
non lasciando di guardare
gli altri figli a lei accanto.
E la radio tascabile
suona musica da ballo;
un discorso di ministro;
un minuto d’intervallo.
Poi diede le notizie,
era quasi mezzanotte:
sono le ultime notizie
le notizie della notte.
La radio trasmette:
«Ultime notizie della notte.
Una grave sciagura si è verificata
in Belgio nel distretto minerario
di Charleroi.
Per cause non ancora note
una esplosione ha sconvolto
uno dei livelli della
miniera di Marcinelle.
Il numero delle vittime è
assai elevato».
Ci fu un lampo di spavento
che seccò il fiato a tutti;
Rosa Scordu sbarra gli occhi
fuoco e lacrime inghiotte.
La radio continua a trasmettere:
«I primi cadaveri riportati
alla superficie dalle squadre di soccorso
appartengono a nostri connazionali
emigrati dalla Sicilia.
Ecco il primo elenco
delle vittime.
Natale Fatta, di Riesi provincia di
Caltanissetta, Francesco Tilotta, di
Villarosa provincia di Enna
Alfio Calabrò, di Agrigento
Salvatore Scordu…».
Un terremoto: «Mio marito!
mio marito!» grida e piange,
e le voci sangue e fuoco
come lance dentro gli occhi.
Una mano e cento bocche,
mentre brucia come torcia,
si lamenta e l’unghie affonda
scorticandosi le carni.
L’altra mano stringe e ammacca
il lattante tramortito,
che si torce mentre piange
affogato e senza aiuto.
E i figli? chi capisce,
chi capisce e non capisce,
annegati in mezzo alle onde
di quel mare senza pesci.
Rosa Scordu, sventurata,
non è donna e non è madre,
e i figli sono orfani
sia di madre che di padre.
Stanno intorno gli emigranti
e non sanno cosa fare;
pure loro in mezzo a l’onde:
trascinati da quel mare!
Va il treno nella notte,
che nottata lunga e scura:
non ci fu il funerale,
è una fossa la vettura.
Turi Scordu alla finestra,
sopra il vetro appiccicato,
senza occhi, senza bocca
è uno scheletro bruciato.
L’alba venne senza luce,
Turi Scordu là restava:
Rosa Scordu lo stringeva
nelle braccia, e si bruciava.
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Mi sono accorto, leggendo qua e là, nei vari blog , di auguri, di saluti, di sorrisi di brindisi..per il nuovo anno, non che vivo su un’altro pianeta..ma oltre la dicitura..2011..non è che sia cambiata di tanto la cosa, ma sei proprio un orso.. qualcuno dirà..e le speranze e i buoni propositi..e i progetti..e eee eeeeeeee .. quante e, vero.., e sono tutte balle.. .Vogliamo un domani migliore..bene..,ma raccontiamo ai nostri bambini ai nostri nipotini..di Babbo Natale..,una mega balla..senza scusanti, senza nominare..perchè, come si fa a spiegarlo, che senza andare tanto lontano, un’altro bambino sta morendo di stenti..di fame..per malattia..perchè i suoi genitori adesso non sono manco più precari..ma disoccupati perenni..(se il bambino in questione ha la fortuna di avere i genitori c’è chi manco ha quella fortuna..) .Li vediamo vivono arrampicati sulle gruu.. nei cantieri edilizi, sui tetti delle fabbriche.. aspettano..Babbo Natale ovviamente.. . Mi sono accorto..riflettete sulla parola “Accorto”.. perchè sembra una banalità.. ma oggi accorgersi di qualcosa.. eeehh non è tanto semplice..perchè le cose dette viste vissute..non sono come sempre appaiono..qualcuno..i nostri amati eloggiati venerati osseguiati parlamentari tanto..parlano( cosi tanto che nessuno ci ha mai capito una sola sillaba) ma poco onorevoli…visto come ci prendono per il cu.. fondelli ,cosa fanno.. ti cambiano le cose.. . Va tutto bene ti dicono, l’Italia si sta riprendendo . siamo usciti dalla crisi.. e tu.. Ma perchè c’era la crisi? Azz non me ne ero accorto, non arrivo da una vita a fine mese.., però dicono che va tutto bene..e te lo raccontano..con quelle facce cosi serie che tu ci credi.. . I soldati.. i nostri ragazzi..in giro per il mondo..Gnazio è andato di persona a porgere i saluti e gli auguri..i ringraziamenti..con quel suo sorriso che sembra una paresi .. sotto quel naso..a becco.., ma non è andato..da chi..in un letto d’ospedale è morto o sta morendo..per l’uranio impoverito..poche centinaia di ragazzi..a chi importa.. . Ho ascoltato..il tradizionale discorso di fine anno..del nostro amato (non esageriamo) diciamo ben visto..Presidente della Republica.., ha parlato a lungo..ero la seduto in divano ..febbre a 50..mezzo morto, occhi che si chiudevano e si riaprivano come fossero telecomandati..beh ho ascoltato..ma non ha detto nulla..erano solo le labbra che si muovevano..o forse era la febbre alta a non farmi captare.. . Mi sono accorto..ed ho sentito ..la mancanza..di quei quasi 700€ che mi hanno fatto come trattenuta sulla pensione..oltre a quelle mensili..annuali.. Beh..che famo..cosi direbbe un mio amico.., lui era sempre pronto a sostenere gli altri.. e lo faceva a modo suo..tu per esempio..cadendo ti eri rotto un braccio..è normale che non esulti di gioia..lui arrivava..però che fortuna.. Azz come che fortuna mi so rotto un braccio.. sto ingessato a li mortacci tua.. e lui con la sua flemma…pensa se te li rompevi tutt’e due… . Buon Cammino nella vita ragazzi ciao
Questa poesia è stata scritta da parsifall. Lascia un tuo commento qui
Cos’è scrivere ?
Modo per mettere su un foglio
la nostra solitudine ,
la voglia di condividere
i bisogni, i sogni ,
non lasciarli come tormento nel cuore ,
ma augurio di serenità,
per noi scrittori,
per voi amici lettori,
tutti trovano qualcosa per arricchirsi.
Quella ricchezza non fatta di denaro,
ma di dolcezza e amore,
sentimenti da regalare,
sorrisi accoglienti,
piccoli doni da raccogliere,
conservare e poi ridonare.
Autore:Robbi
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