Poesie di Eldy

Ignazio Buttitta(poeta siciliano)

 ignazio_buttitta

Vorrei poter approfittare dell’opportunità che date per far conoscere una poesia che amo molto, una poesia di Ignazio Buttitta, poeta contemporaneo siciliano, figlio di commercianti, nato a Bagheria (PA) il 19 settembre 1899, che scelse di scrivere le sue poesie in lingua siciliana, ma che per ovvi motivi trascrivo in italiano. Un poeta che ha sempre parlato della sua terra e ha sempre lottato per la conservazione della propria cultura.
Ignazio Buttitta è morto il 5 aprile 1997. Spero gradirete questa poesia.

Non sono poeta

Non posso piangere,
ho gli occhi secchi,
e il mio cuore
è una pietra pesante.

La vita m’ha ridotto
arido e spezzato
come una carrettata di brecciame.

Non sono poeta;
odio l’usignolo e le cicale,
il venticello che carezza l’erba
e le foglie che cadono con l’ali;
amo le bufere,
i venti che disperdono le nuvole
e puliscono l’aria e il cielo.

Non sono poeta,
ma nemmeno un insipido pesce
d’acqua dolce;
sono un pesce selvatico
abituato ai mari profondi.
Non sono poeta
se poesia significa
la luna che pende
e impallidisce le facce dei fidanzati;
la mezzaluna
mi piace quando splende
dentro il bianco dell’occhio del bue.

Non sono poeta;
ma se è poesia
affondare le mani
nel cuore degli uomini che soffrono
per spremerne il pianto e lo sconforto;
ma se è poesia
sciogliere il cappio agli impiccati,
aprire gli occhi ai ciechi,
dare l’udito ai sordi,
rompere catene e lacci e nodi:

Ma se è poesia
chiamare nelle tane e nelle grotte
chi mangia poco e veleno inghiotte;
chiamare gli zappatori
curvati sulla terra
che succhia sangue e sudore;
e strappare
dal fondo delle zolfare
la carne cristiana
che cuoce nell’inferno:

Ma se è poesia
volere mille
centomila fazzoletti bianchi
per asciugare occhi gonfi di pianto;
volere letti morbidi
e cuscini di seta
per le ossa storcigliate
di chi lavora;
e volere la terra
un tappeto di foglie e fiori
che rinfreschi lungo il cammino
i piedi nudi dei poveri:

Ma se è poesia
farsi mille cuori
e mille braccia
per stringere povere madri
inaridite dal tempo e dalla sofferenza
senza latte alle mammelle
e col bambino in braccio:
quattro ossa strette
al petto assetato d’amore:

Datemi una voce potente
perché mi sento poeta:
datemi uno stendardo di fuoco
e mi seguano gli schiavi della terra,
una fiumana di voci e di canzoni:
gli stracci all’aria
gli stracci all’aria
inzuppati di pianto e di sangue.
da Antonino8.Pa
Col permesso di Antonino, aggiungiamo ancora una bellissima poesia di questo grande artista siciliano

LU TRENU DI LU SULI – 1999  
Ignazio Buttitta – 1999 – Tratto da: “La mia vita vorrei scriverla cantando”

                                                                                             Traduzione in Italiano
 Il treno del sole
 
Turi Scordu, zolfataro,
abitante a Mazzarino,
con il Treno del sole
si avventura al suo destino.

 Che faceva a Mazzarino
se lavoro non ce n’era?
fece sciopero una volta
e lo misero in galera.

 Una tana la sua casa,
sua moglie quattro ossa,
e la fame lo cercava
con le carte dell’usciere.

Sette figli e la moglie,
otto bocche e otto pance
e un camion per cuore
caricato di doglianze.

 Nel Belgio, invece, ora
lavorava giorno e notte;
alla moglie scriveva:
non mangiate fave cotte.

 Con i soldi che ricevi
compra roba e le lenzuola
e le scarpe per i figli
per potere andare a scuola.

 Nel Belgio, le miniere,
le miniere di carbone:
sono nere nere nere
come sangue di dragone.

 Turi Scordu, un pezzo d’uomo,
quand’è sera dorme solo;
dentro il letto, e i piedi in fuori,
smaniava come un mulo.

 Con le donne ci tentava;
ma essendo analfabeta
incantarle non sapeva
con le parole di poeta.

 E faceva penitenza,
Turi Scordu, Il nel Belgio:
senza tonaca né mitra
gli pareva un sacrilegio.

 Il pensiero, certe volte,
lo portava nella tana,
e il cuore gli sonava
a mortorio la campana.

 Che se c’era la minestra
di patate e di fagiuoli,
nella tana c’era festa
per la moglie e i figliuoli.

 Come albero strappato
senza foglie né radici,
si sentiva Turi Scordu
quando pensa figli e moglie.

 Dopo un anno di patire
finalmente si decise:
«Moglie mia, piglia la roba,
vieni tu in questo paese».

 E partirono madre e figli
salutando Mazzarino;
i parenti in appresso
ci facevano festino.

 Di cartone la valigia
con la corda per traverso;
il lattante sopra il seno
che succhiava a tempo perso.

Lei davanti, e la covata
degli zingari la segue:
con fagotti e sacchi in mano,
montarozzi sulla schiena.

 La covata con la chioccia
quando fu sopra il treno,
non sapeva s’era in cielo…
e nemmeno sulla terra.

Il paese da lontano
ora sale ed ora scende;
e il treno che volava
senza ali e senza penne.

 Ogni tanto si fermava
infornando passeggeri:
emigranti zolfatari,
figli e padri con le mogli.

Padri e madri si presentano,
li fa amici la sventura:
gli emigranti una famiglia
fanno dentro la vettura.

«Il mio nome? Rosa Scordu».
«Il paese? Mazzarino».
«Dove andate ?». «Dove andiamo?
Dove vuole il destino».

 Quante cose si dicevano!
perché i poveri, si sa,
hanno milioni di guai:
morsicati dalle api!

 Quando venne la nottata
dopo Villa San Giovanni
una radio tascabile
grandi e piccoli diverte.

 Tutti sentono la radio,
l’ha in mano un emigrante;
i bambini senza sonno
fanno gli occhi grandi tanto.

 Rosa Scordu ascolta e pensa,
arrivando; cosa trova…
altra gente e nazione,
una storia tutta nuova.

 E si stringe per difesa
il lattante insonnolito
non lasciando di guardare
gli altri figli a lei accanto.

 E la radio tascabile
suona musica da ballo;
un discorso di ministro;
un minuto d’intervallo.

 Poi diede le notizie,
era quasi mezzanotte:
sono le ultime notizie
le notizie della notte.

La radio trasmette:
«Ultime notizie della notte.
Una grave sciagura si è verificata
in Belgio nel distretto minerario
di Charleroi.
Per cause non ancora note
una esplosione ha sconvolto
uno dei livelli della
miniera di Marcinelle.
Il numero delle vittime è
assai elevato».

 Ci fu un lampo di spavento
che seccò il fiato a tutti;
Rosa Scordu sbarra gli occhi
fuoco e lacrime inghiotte.

La radio continua a trasmettere:
«I primi cadaveri riportati
alla superficie dalle squadre di soccorso
appartengono a nostri connazionali
emigrati dalla Sicilia.
Ecco il primo elenco
delle vittime.
Natale Fatta, di Riesi provincia di
Caltanissetta, Francesco Tilotta, di
Villarosa provincia di Enna
Alfio Calabrò, di Agrigento
Salvatore Scordu…».

 Un terremoto: «Mio marito!
mio marito!» grida e piange,
e le voci sangue e fuoco
come lance dentro gli occhi.

 Una mano e cento bocche,
mentre brucia come torcia,
si lamenta e l’unghie affonda
scorticandosi le carni.

 L’altra mano stringe e ammacca
il lattante tramortito,
che si torce mentre piange
affogato e senza aiuto.

 E i figli? chi capisce,
chi capisce e non capisce,
annegati in mezzo alle onde
di quel mare senza pesci.

Rosa Scordu, sventurata,
non è donna e non è madre,
e i figli sono orfani
sia di madre che di padre.

Stanno intorno gli emigranti
e non sanno cosa fare;
pure loro in mezzo a l’onde:
trascinati da quel mare!

Va il treno nella notte,
che nottata lunga e scura:
non ci fu il funerale,
è una fossa la vettura.

 Turi Scordu alla finestra,
sopra il vetro appiccicato,
senza occhi, senza bocca
è uno scheletro bruciato.

L’alba venne senza luce,
Turi Scordu là restava:
Rosa Scordu lo stringeva
nelle braccia, e si bruciava.

Contributo di admin, 6 gennaio 2011 02:00.

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