Flavio.49, ci invia una presentazione del grandissimo Puskin, facendo la felicità di quanti apprezzano questo autore, e a chi si ferma, ben volentieri, a leggere in questo blog
PUSKIN, Alessandro Sergevich. – Nacque a Mosca nel 1799 e morì a Pietroburgo nel 1837 a soli 38 anni, vittima della condotta fedifraga della moglie, la bellissima Natalia Goncarova sposata nel 1831 che, si dice ma non se ne hanno le prove, lo tradisse sistematicamente sia con lo Zar Pietro il grande che con un ufficiale della guardia, certo Georges D’Anthès. Proprio quest’ultimo, sfidato a duello a causa di una lettera anonima, gli procurò la morte mediante una ferita al ventre che, prima della fine, lo tenne in agonia per un paio di giorni.
Ma non è il caso qui di parlare della vita di Puskin le cui vicende sono esaurientemente raccontate su Internet dove chiunque può prenderne visione.
Diremo solamente che proveniva da una famiglia nobile benestante e condusse una vita per niente tranquilla. Conduceva vita mondana, ebbe molti amori e ne subì anche qualche guaio per il rapporto con donne sposate a importanti funzionari pubblici.
Molti guai gli derivarono soprattutto dal suo carattere ribelle che gli procurò l’esilio e una frequente stretta sorveglianza da parte delle autorità e perfino una ingiusta censura.
Nemmeno è il caso di fare l’elenco delle numerose opere da lui prodotte anch’esse facilmente consultabili sul Web.
Ci si limiterà invece a delle brevi considerazioni sulla sua produzione letteraria.
Alcuni suoi lavori subirono l’influenza delle opere del poeta inglese Byron (Londra 1788-Missolungi Gracia 1824) che come lui ebbe vita molto breve, ricca di donne e avventure, caratterizzata principalmente da uno spirito romantico difficilmente riscontrabile nella morale di quei tempi.
Puskin scrisse di tutto, dagli scritti elegiaci alle odi, bellissime poesie alcune delle quali si riportano più avanti, e poi romanzi di alcuni dei quali si dirà in breve.
Dedicava bellissime liriche alle sue donne: II prigioniero del Caucaso, I fratelli masnadieri, La fontana di Bachcisarai, e Gli zingari.
Era uno spirito romantico ma anche realista un realismo, caratteri entrambi che hanno caratterizzato tutta la sua produzione letteraria.
Oltre alle stupende liriche per le belle donne scrisse anche poesie di carattere politico.
Ebbe un gran rispetto per l’Italia, conosceva benissimo gli artisti italiani e qualche cenno ne faceva nella poesia all’Italia già proposta in Eldy.
Nel complesso la sua è una lirica intrigante e coinvolgente, piacevolmente scorrevole che ti avvince e che si fa rileggere volentieri.
Si dedicò anche al lavoro teatrale ricalcando le orme del grandissimo Shakespeare: il Boris Gudonov, Il cavaliere avaro, e molte altre ancora.
Una leggera influenza esercitarono su di lui sia Goethe che Schiller, i più grandi scrittori e poeti tedeschi. Come Goethe infatti fu grande ammiratore di Shakespeare e esattamente come lui nella sua vita incontrò molte donne,considerando naturalmente il rapporto fra i suoi anni di vita (38 appena) contro gli 83 del poeta di Francoforte.
I suoi lavori ebbero un grande successo e moltissimi scrittori furono da lui ispirati.
Fu un artista romantico certamente il primo della grande letteratura russa.
Aveva però un difetto, troppe donne e troppi duelli non gli consentirono una esistenza tranquilla, il suo fu uno stile di vita che contrastava fortemente con lo spirito romantico che caratterizza tutta la sua produzione.
Proprio quel suo carattere lo portò alla morte.
E infine solo un cenno veloce su alcune delle opere più importanti di Puskin:
l’EVGENIJ ONEGIN (1833) è un romanzo in versi in parte autobiografico. Parla del modo di concepire la realtà nella Russia del tempo descrivendo in dettaglio i vari aspetti della vita.
LA FIGLIA DEL CAPITANO (1836) invece è un romanzo storico che racconta con molta ironia la Storia della rivolta di Pugacev. E’ riconosciuto dalla critica come una delle migliori creazioni di Puskin.
LA DAMA DI PICCHE o La donna di picche è un componimento delizioso che mi ha affascinato la prima volta che l’ho letto. Ricorda certe opere del nostro grande Eduardo De Filippo. Qui con uno stile brioso e scorrevole Puskin parla di questo giovane che non gioca per timore di perdere tutto ma si ricrede quando pensa di aver ricevuto dalla dama di picche i numeri segreti per vincere. Appena apprende che era solo una illusione, impazzisce per la profonda delusione.
Elegia
Degli anni folli la già spenta gioia
come una cupa ebbrezza mi dà noia,
ma come il vino, o antico mio dolore,
più invecchi, più ti fai forte nel cuore.
Il mio cammino è triste. Un fato oscuro
m’annunzia il grigio mare del futuro.
Ma io non voglio, amici miei, morire,
io voglio ancora vivere e soffrire.
So che troverò sempre un po’ di bene
in mezzo alle amarezze ed alle pene;
m’inebrierò di nuovo d’armonia,
lacrimerò su qualche fantasia,
e forse brillerà al tramonto mio
l’amore come un sorridente addio.
Versi d’album
Che c’è per te nel nome mio?
Morirà esso come il grido
d’un’onda infranta contro il lido,
come in un bosco un mormorio.
Lascerà sulla carta muta
un’orma pallida ed eguale
a un’iscrizione sepolcrale
in una lingua sconosciuta.
Che c’è per te? Scordato ormai
in tanti affanni nuovi e gravi,
invano tu vi cercherai
memorie tenere e soavi.
Ma tu pronunzialo nel triste
giorno in cui il male si ravviva;
di’: il mio ricordo ancora esiste,
c’è ancora un cuore ove son viva.
La stella della sera
Si dirada volando la nuvola leggera.
Malinconica stella, o stella della sera!
Inargenta il tuo raggio le squallide pianure,
il golfo sonnolento e le montagne scure.
Amo il tuo fioco lume nell’aria trasparente;
esso ha in me risvegliato un pensiero dormente
ricordo il tuo tramonto, o astro prediletto,
sovra un dolce paese sempre caro al mio affetto,
dove nelle vallate s’alzano i pioppi fieri,
dove dormono i mirti ed i cipressi neri,
ed i tiepidi flutti sussurrano soavi.
In quei monti col cuore pieno di sogni gravi
distraevo sul mare l’indolenza pensosa:
scendeva sopra i tetti la tenebra gelosa,
e una giovane donna me nell’ombra cercava
e te col proprio nome alle amiche chiamava.
Inno alla peste
Quando l’inverno, vigoroso
come un guerriero, sotto i cieli
guida l’esercito villoso
delle sue nevi e dei suoi geli,
di fuochi fervono i camini,
di luci splendono i festini.
Regina orribile, la Peste
viene da noi con passo forte,
chiamata dalla messe agreste,
e bussa a vetri muri e porte
con il badile della bara:
chi ci consiglia o ci ripara?
Cerchiamo scampo dalla morte
come dal brivido invernale!
Chiudiamo rapidi le porte,
versiamo il vino nel boccale,
ed in conviti danze e feste
cantiamo il regno della Peste!
C’è una allegrezza grande e bella
sull’orlo estremo della rupe,
nell’oceanica procella
tra flutti immensi e nubi cupe,
nelle sahariche tempeste
e nel respiro della Peste.
Ciò ch’è dannato a perdizione
pei nostri cuori in sé nasconde
un’inesausta seduzione,
pegno di gioie più profonde…
Beato chi nella sua noia
potè trovare questa gioia.
Gloria a te. Peste! La paura
ignota c’è del tuo richiamo
e dell’oscura sepoltura.
E nel tuo aroma noi beviamo,
o Rosa-Vergine celeste,
forse anche il fiato della Peste!
All’Italia
Chi conosce la terra dove il cielo
d’indicibile azzurro si colora?
dove tranquillo il mar con l’onda sfiora
rovine del passato?
dove l’alloro eterno ed il cipresso
crescon superbi? dove il gran Torquato
cantò? dove anche adesso
ne la notte profonda
i canti suoi va ripetendo l’onda?
la terra ove dipinse Raffaello,
dove gli ultimi marmi
animò di Canova lo scalpello
e Byron rude martire ne’ carmi
dolore, amore effuse e imprecazione?
Italia, terra magica, gioconda
terra d’ispirazione!
il demone
Al tempo che nuova scoprivo
dell’esistenza ogni impressione:
begli sguardi, fruscio boschivo,
di notturno usignolo canzone –
quando sublimi sentimenti,
amore, gloria e libertà,
nel sangue urgevano ferventi
con la poetica ebrietà,
gioie e speranze imprevisto
un cupo dolore guastò:
segretamente un genio tristo
a visitarmi cominciò.
Nei nostri mesti appuntamenti
mi ammaliava, mi sorrideva:
coi suoi discorsi pungenti
freddo veleno m’infondeva.
Quasi a indurla in tentazione
calunniava la Provvidenza;
chiamava un’illusione il bello;
disprezzava l’ispirazione;
libertà e amore rinnegava;
guardava alla vita con scherno;
e niente in tutta la natura
a benedire si piegava.
Sera d’inverno
La bufera il cielo ottenebra,
venti di neve turbinando;
come belva ulula adesso,
ora piange come un bambino,
ora sul tetto sconnesso
la paglia, ecco, fa frusciare,
ora, tardo pellegrino,
al finestrino è qui a bussare.
La nostra annosa casetta
è tutta buia e mesta.
E tu perché, o mia vecchietta,
sei ammutolita alla finestra?
della bufera l’ululio,
amica mia, ti ha affaticata,
o sonnecchi dal ronzìo
del tuo arcolaio appisolata?
Beviamoci su, amica cara
della povera mia giovinezza:
beviamo tristi – qua il bicchiere!
Il cuore ne avrà allegrezza.
Cantami tu la cingallegra
che viveva di là dal mare;
cantami tu quella ragazza
che alla fonte doveva andare.
La bufera il cielo ottenebra,
venti di neve turbinando;
come belva ulula adesso,
ora piange come un bambino.
Beviamoci su, amica cara,
della povera mia giovinezza:
beviamo tristi – qua il bicchiere!
Il cuore ne avrà allegrezza.
A-“‘”
Ricordo il magico istante:
davanti m’eri apparsa tu,
come fuggevole visione,
genio di limpida beltà.
Nei disperati miei tormenti,
nel chiasso delle vanità,
tenera udivo la tua voce,
sognavo i cari lineamenti.
Anni trascorsero. Bufere
gli antichi sogni poi travolsero
scordai la tenera tua voce,
i tuoi sublimi lineamenti.
E in silenzio passavo i giorni
recluso nel vuoto grigiore,
senza più fede e ispirazione,
senza lacrime, né vita e amore.
Tornata è l’anima al risveglio:
e ancora mi sei apparsa tu,
come fuggevole visione,
genio di limpida beltà.
E nell’ebbrezza batte il cuore
e tutto in me risorge già –
e la fede e l’ispirazione
e la vita e lacrime e amore.
Viaggiando d’inverno
Dentro la nebbia a onde
si fa strada la luna,
una mesta luce effonde
sulla mesta radura.
Sulla noiosa via d’inverno
va la trojka baldanzosa,
tintinna la campanella
monotonamente affannosa.
Qualcosa di familiare
è nel canto del postiglione:
ora baldoria che avvampa,
ora dolore del cuore…
Non c’è un nero di capanna,
non c’è un fuoco… Vuoto e neve…
Soltanto i pali delle miglia
sopravvengono incontro a me.
Noioso, triste… Ma domani,
domani, Nina, da tè sarò,
non smetterò più di guardarti,
presso il camino tutto oblierò.
Poi la lancetta delle ore
il suo giro concluderà,
allontanando gli importuni
la mezzanotte ci unirà.
Triste e noiosa, Nina, è la via,
il postiglione si è appisolato,
la campanella è una litania,
il volto della luna è annebbiato.
Elaborato da Flavio.49
Questa poesia è stata scritta da flavio:46. Lascia un tuo commento qui
Luigi Pirandello: Presentato da Antonino8.pa
Luigi Pirandello, drammaturgo, scrittore e poeta italiano, nato ad Agrigento il 28 giugno 1867, morto a roma il 10 dicembre 1936, premio Nobel per la letteratura nel 1934.
Credo che oggi siano davvero poche le persone che non lo conoscono o non abbiano sentito parlare o hanno letto qualcuna delle sue opere.
A partire dal primo romanzo ” Il fu Mattia Pascal ”
Ma il vero successo arrivò nel 1922, quando si dedicò completamente al teatro, spinto in tal senso, dall’amico Nino Martoglio. Infatti lo scrittore aveva rinunciato a scrivere opere teatrali, ma Martoglio lo convinse a mandare in scena alcuni suoi lavori: Lumia di Sicilia e l’Epilogo atti unici scritti da Pirandello nel 1982, e che ebbero un discreto successo nel dicembre del 1910.
Ma quello che questa volta desidero evidenziare non sono le commedie scritte da Pirandello, bensì le sue poesie, forse la parte meno conosciuta dei suoi scritti, che a me dà tanto e che credo sia una ricchezza e un arricchimento per chiunque ha occasione di leggerle. Queste quelle che preferisco.
ELEVAZIONE
Com ’aquile avvolgenti a un brullo monte
corone ampie con l ’ali poderose,
larve di gloria in torno a la mia fronte
si raccolgon superbe, e scudo a l ’onte
mi son dei fati avversi e de l’irose
passïoni terrene ed altre cose
le virtú richiamando, accorte e pronte.
Fermo l ’animo a loro, io vo seguendo
questo acuto desio che mi conduce
de la ragione a le piú alte cime.
E con molto pensier, sereno, ascendo,
che d ’esser nato la perfetta luce
mi consoli sul vertice sublime.
DEPRESSIONE
Atomo umano, enorme è la natura.
L ’esser t ’investe e ti trascina. Invano
contenerlo vorresti: ei non ti cura,
ei va per le sue vie, atomo umano.
Io piú sitir non vo ’ la sorte oscura
de l ’avvenire: come un uragano
nel passato ei rovesciasi e s ’oscura,
tutto vorando l ’esser nostro vano.
Spengonsi a lento ormai nei polsi bassi,
e nel cervel, cui fanno assedio i dubî,
le fantastiche febri del desio.
Atomo umano, guarda in ciel le nubi:
estraneo a tutto sei, estraneo passi.
Scenda pei sogni miei, scenda l ’oblio.
FRAMMENTO
E pur cantando m ’avvien di pensare
quel che m ’ingegno cantando obliare;
e per ciò canto, che scordi il dolore
e il mal d’amore;
ma ahimè, piú canto e piú me ne sovviene,
però che al labro null ’altro mi viene
che suon di pene;
ond ’è, guardate, il vero, ed appar bene,
ch ’io porto, o Donna, in cor l ’effigie vostra,
la qual gastiga mia ragione e prostra.
Ma già che amor mi vuol tanto onorare,
ch ’entro del core mi fa voi portare,
di grazia, me ’l guardate da l ’ardore:
che ben maggiore
di voi timor, che non di me mi tiene.
Pensate, o Donna, il mio cor vi contiene,
se mal gli avviene,
dentro vi state, e soffrir vi conviene.
Fate però ciò ch ’util vi si mostra,
guardate il cor come la casa vostra.
ANDANDO
A ciò che addietro nell ’andar ti lasci
non badi ancora, poi che ti concede
di guardar oltre il tempo e innanzi fasci
di speranze t ’accende, a cui tu miri.
Vai, cosí rischiarato, ove d ’un sogno
la tentatrice immagine t ’attiri
o lo sprone ti spinga d ’un bisogno,
e non ti senti la catena al piede.
Nulla intanto hai davanti: un ’ombra vana,
un inganno mutevole, una meta
che quanto piú t ’accosti, s ’allontana.
Ma non ancor per te scoccata è l ’ora
di volgerti a guardar dietro, nel breve
cammin percorso, e innanzi si colora
l ’avvenir tanto piú quanto piú lieve
è il passato che ancor non t’inquïeta.
Pur verrà giorno che ti sentirai
cosi forte chiamar dietro le spalle
donde non puoi far piú ritorno mai,
che per te diverrà fievole, muto
ciò che innanzi t ’invita, e da te stesso
a guardar ti porrai quanto hai perduto.
Le rose che ti risero da presso
e non curasti, ecco or lontane e gialle.
E con le terga ormai verso il futuro
e gli occhi assorti nel cammin percorso
andrai, men lieto quanto piú sicuro,
riallacciando ognor piú da lontano
le fila che correndo avrai lasciate
sospese, fino a che non apra il piano
d ’improvviso una fossa alle gravate
membra, e insieme al rimpianto od al rimorso.
NOTTE INSONNE
Io mi sento guardato da le stelle
e questa notte non posso dormire.
Mi par che qualche cosa esse, sorelle
maggiori, a questa terra voglian dire.
O sorgive di luci, la parola,
la parola tremenda del mistero
ditela a una vegliante anima sola
perduta in mezzo al vostro cielo nero.
So che dovrei di ciò ch ’è in terra solo
occupar la mia mente e i desir miei;
ma tu piú forte d ’ogni intento sei,
ciel che l ’anima mia rapisci a volo.
Tutte le fonti della vita insieme
non avran mai poter di saziare
l ’ardentissima sete, e sempre amare
avrò le labbra e vigile la speme,
ben che ognora delusa. O di basalto
funebre cielo, invano ti martella
il mio pensiero; invano si ribella
in terra, invano si rifugia in alto.
È l ’antica paura, è l ’appassito
istinto della fede, o questa nuova
smania, alla quale nessun tetto giova,
che mi spinge a cercar nell ’infinito?
Io di qua giú, di questa terra breve,
di cui ben sento la viltà dinnanti
a te, che cerco? – Un suon di chiari canti
dal bujo vien della vicina pieve.
Si prega lí, si prega per la vita
e per la morte: ardon votivi ceri
su un altar ben parato e gl ’incensieri
fuman sotto un ’imagine scolpita.
A chi mentí la vita, a chi la terra
non concesse una sola primavera,
a chi riposo non cercò la sera,
ma il tempo, senza tregua, o insidie o guerra,
tu solamente, o ignoto ciel, rimani;
e a te su i sassi della terra infida
ogni dolore s ’inginocchia e grida:
lacriman gli occhi e tremano le mani.
Alla porta del sogno in cui, riparo
a gli amor miei cercando, mi son chiuso,
siccome in un castello aurato e chiaro
qual le fate inalzarne aveano in uso,
batton le cure pallide, impedite
le membra da un intrico di catene;
“Il mondo ti reclama: apri. L ’immite
ora ti vieta un solitario bene”;
batton, pregando esaudimento, i brevi
desiderî, e tentandomi: «È qua giú
la tua radice: se per lei non bevi,
cadrà la cima ove t ’annidi tu»;
e batton i bisogni, delle cure
ancor piú schiavi: «Apri: sfuggir non puoi
al comun fato. Giú, folle, tu pure,
la tua catena a trascinar fra noi ».
Le leggi a un palmo qui dal fango stanno:
corde livellatrici, a cui chi striscia
sfugge sotto e da cui chi non è biscia
ha d ’inutili ceppi iroso affanno.
E neppur un capel torcono ai nani.
Il nano passa lieto: dalla rete
nelle sue voglie sobrïe, discrete,
si tien protetto e si frega le mani.
Or se con strappo di possente piede
non ti sgombri il cammino alla piú lesta,
o tu ti pieghi o mozza avrai la testa:
altrimenti qua giú non si procede.
Non tollerano ponti solo i mari;
su l ’alpe eccelsa non s ’erigon case,
o dalle nevi seppellite o rase
sono dalle tempeste aquilonari.
L ’anima or segue nella notte il fiume
che dal grembo di Roma già silente,
siccome enorme placido serpente,
svolgesi della Luna al freddo lume.
Chiama da lungi con assidua voce
il tenebroso palpitante mare;
l ’anima pensa al vano suo passare,
s ’affretta il fiume alla solvente foce.
CROLLO
Rido se vedo un bimbo che la mano
schiuda nel vuoto,
credendo di posarvi un qualche oggetto;
non rido piú se noto
che a me pur similmente accade
che nel vano del tempo crolli ogni desio nascente,
ogni nascente affetto.
TRAMONTO
— Di foco all ’orizzonte il ciel si fascia,
lento al tramonto il sole si riduce.
O tu che del mister sforzi le porte,
guarda! Di qua le tenebre egli lascia,
reca di là d ’un nuovo dí la luce.
Ebben, chi sa? forse cosí la morte.
SETTEMBRE
Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.
Elaborato da antonino8.pa
Questa poesia è stata scritta da antonino8.pa. Lascia un tuo commento qui
Il tuo viso d’Angelo
le tue labbra color di rosa
i tuoi capelli color grano maturo,
i tuoi occhi color smeraldo
la tua voce calda e suadente .
Questa è fantasia che abita nella mente
degli uomini.
La donna ideale.
Ma la realtà spesso è diversa .
Nella donna l’uomo saggio cerca
non il suo profilo
la perfezione fisica
ma la saggezza
la madre dei suoi figli
la sincerità
la tenerezza
l’appoggio morale
il calore che porta amore.
autore:Fernando
Questa poesia è stata scritta da fernando. Lascia un tuo commento qui
Così io, e mio fratello,
chiamavamo la mamma,
lei donna forte, coraggiosa,
mi ha insegnato a sorridere alla vita,
accompagnandomi,
con mano salda,
nella bella avventura… la vita.
Quella stessa mano, ora tremante
si affida alla mia.
Le nostre mani
hanno cambiato posizione,
ora è la mia che accompagna la sua,
verso la sera, di questo lungo giorno.
Il traguardo si spera lontano…
ma siamo in cammino,
ancora insieme, solo le parti cambiate,
ora lei tenera e indifesa,
testolina argentea,
occhi vivi,
ancora sorridenti alla vita.
Autore:robbi
Questa poesia è stata scritta da robertadegliangeli. Lascia un tuo commento qui
Amore, amore,
amore per la vita,
amore della vita.
Amore che trascende,
che ti prende,
amor che fa sognare,
che fa volare,
in mondi sconosciuti,
estasi infinita.
Amore compagno perfetto,
che gioca a rimpiattino,
che scoppia dentro il cuore,
riempiendo anche la mente.
Amore, dannazione d’animo,
come in un inferno.
Amor trascendentale,
coinvolge tutti i sensi.
Amore, ardente fuoco,
bruciare di passione.
Amore, smarrirsi in due occhi,
danzare al suono di una voce,
perdersi nel calore di un corpo,
fusione di esistenze.
Amore, centro dell’universo,
da esso sboccia un fiore,
che noi chiamiamo vita
autore:antonino 8.pa
Questa poesia è stata scritta da antonino8.pa. Lascia un tuo commento qui