Poesie di Eldy

Edgar Allan Poe

Edgar Allan Poe

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Edgar Allan Poe, 19 gennaio 1809 –7 ottobre 1849, scrittore e poeta statunitense, considerato tra le figure più importanti della letteratura americana, di grande inventiva, ha anticipato generi letterari quali il romanzo poliziesco (il suo personaggio Auguste Dupin si può considerare l’antenato più diretto dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle), e la fantascienza.
E’ generalmente considerato uno dei padri della moderna letteratura americana.
La sua non fu certo una vita facile, i numerosi debiti, l’alcool, la povertà. La morte della moglie fece sprofondare lo scrittore nella più cupa desolazione, travolto dal dolore e dal rimpianto, affogò ancor di più nell’alcool.
Il 3 ottobre 1849 Poe fu ritrovato delirante nelle strade di Baltimora, portato all’ospedale Washington College, morì il 7 ottobre 1849.
Durante gli ultimi anni della sua vita, Poe compose alcune tra le più belle delle sue poesie.
Come disse il poeta Charles Baudelaire, primo a tradurlo ed introdurlo in Europa, la poesia di Edgar Poe è qualcosa di profondo e di splendente come il sogno, di misterioso e perfetto come il cristallo.
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Solo

Fanciullo, io già non ero
come gli altri erano, nè vedevo
come gli altri vedevano. Mai
derivai da una comune fonte
le mie passioni – nè mai,
da quella stessa, i miei aspri affanni.
Nè il tripudio al mio cuore
io ridestavo in accordo con altri.
Tutto quello che amai, io l’amai da solo.
Allora – in quell’età – nell’alba
d’una procellosa vita – fu derivato
da ogni più oscuro abisso di bene e male
il mistero che ancora m’avvince –
dai torrenti e dalle sorgenti –
dalla rossa roccia dei monti –
dal sole che d’intorno mi ruotava
nelle sue dorate tinte autunnali –
dal celeste baleno
che daccano mi guizzava –
dal tuono e dalla tempesta –
e dalla nuvola che forma assumeva
(mentre era azzurro tutto l’altro cielo)
d’un demone alla mia vista -.
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Il giorno più felice

Il giorno più felice – l’ora più felice
questo mio inaridito cuore ha già conosciuto;
ogni più alta speranza di trionfo e d’orgoglio
sento ch’è fuggita via.

Trionfo? Oh sì, così fantasticavo;
ma da gran tempo svanirono ormai
le visione di quel mio giovanile tempo –
e sia pur così.

E quanto a te, orgoglio, che dirti?
Erediti pure un’altra fonte
quel veleno che approntasti per me –
Ora acquietati, o mio spirito.

Il giorno più felice – l’ora più felice –
che quest’occhi avrebbero visto – hanno già visto,
il rifulgente sguardo di trionfo e d’orgoglio
sento che è spento ormai.

Ma mi fosse pur riofferta quella speranza
di trionfo e d’orgoglio, e con la pena
che allora avvertivo – quella fulgente ora
io non vorrei riviverla:

giacchè oscure scorie erano su quelle ali
e, al loro agitarsi, una maligna essenza
ne pioveva – fatale per un’anima
che già l’ha conosciuta.
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La stella della sera

L’estate era al suo meriggio,
e la notte al suo colmo;
e ogni stella, nella sua propria orbita,
brillava pallida, pur nella luce
della luna, che più lucente e più fredda,
dominava tra gli schiavi pianeti,
nei cieli signora assoluta –
e, col suo raggio, sulle onde.
Per un poco io fissai
il suo freddo sorriso;
oh, troppo freddo – troppo freddo per me!
Passò, come un sudario,
una nuvola lanugiosa,
e io allora mi volsi a te
orgogliosa stella della sera,
alla tua remota fiamma,
più caro avendo il tuo raggio;
giacchè più mi allieta
l’orgogliosa parte
che in cielo svolgi a notte,
e di più io ammiro
il tuo fuoco distante
che non quella fredda, consueta luce.
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I recessi ombrosi dove in sogno io vedo
i più vaghi uccelli canori,
son come labbra – e tutta la tua melodia
di parole cui il labbro da forma. –
I tuoi occhi, gemme nel cielo del cuore,
desolati si posano allora,
o Dio!, sulla mia mente funerea –
luce di stelle su un nero drappo.

Il tuo cuore – il tuo cuore! Mi ridesto
e sospiro, e dormo per sognare
di quella verità che l’oro non può mai comprare –
e di quelle futilità che sempre può, invece.
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A mia madre

Poichè io ben sento che negli alti cieli
gli angeli, bisbigliando l’uno all’altro,
parola non trovano, fra i loro ardenti accenti,
che sia più devota di quella di “madre”
io già da tempo a te ho dato quel caro nome –
a te che più che madre mi sei e che mi ricolmi
il cuore, dove Morte t’installò, lo spirito
liberando, al contempo, della mia Virginia.
La mia propria madre, che così presto mi lasciò,
non fu che di me solo madre; ma tu sei madre
di colei che io così caramente ho amato:
sicchè a me più cara tu sei dell’altra
per quell’infinita via per cui la mia sposa
fu alla mia anima più cara che la vita stessa.
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Un sogno dentro un sogno

Questo mio bacio accogli sulla fronte!
E, da te ora separandomi,
lascia che io ti dica
che non sbagli se pensi
che furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient’altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno.

Sto nel fragore
di un lido tormentato dalla risacca,
stringo in una mano
granelli di sabbia dorata.
Soltanto pochi! E pur come scivolano via,
per le mie dita, e ricadono sul mare!
Ed io piango – io piango!
O Dio! Non potrò trattenerli con una stretta più salda?
O Dio! Mai potrò salvarne
almeno uno, dall’onda spietata?
Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno?
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Un sogno

In visioni di notturna tenebra
spesso ho sognato svanite gioie –
mentre un sogno, da sveglio, di vita e di luce
m’ha lasciato col cuore implacato.

Ah, che cosa non è sogno in chiaro giorno
per colui il cui sguardo si posa
su quanto a lui è d’intorno con un raggio
che, a ritroso, si volge al tempo che non è più?

Quel sogno beato – quel sogno beato,
mentre il mondo intero m’era avverso,
m’ha rallegrato come un raggio cortese
che sa guidare un animo scontroso.

E benchè quella luce in tempestose notti
così tremolasse di lontano –
che mai può aversi di più splendente e puro
nella diurna stella del Vero?
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A f.

O mia amata, fra i dolenti affanni
così folti sul mio terrestre sentiero –
triste, ahimè! – dove mai non cresce
un fiore, mai alcuna rosa solitaria –
trova sollievi almeno l’anima mia
in molti sogni di te: e conosce allora
un Eden di blando riposo.

Così, dal ricordo di te si distilla
in me un’isola d’incanto, lontana,
in mezzo a un tumultuante mare –
fremente oceano e immenso, esposto
ad ogni tempesta – nel mentre che, intanto,
i più sereni cieli, continuamente,
solo sorridono su quell’isola fulgente.
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A una in Paradiso

Eri per me quel tutto, amore,
per cui si struggeva la mia anima –
una verde isola nel mare, amore,
una fonte limpida, un’ara
di magici frutti e fiori adornata:
e tutti erano miei quei fiori.

Ah, sogno splendido e breve!
Stellata speranza, appena apparsa
e subito sopraffatta!
Una voce del Futuro mi grida
“Avanti, avanti! ” – ma è sul Passato
(oscuro gugite! ) che la mia anima aleggia
tacita, immobile, sgomenta!
Perchè mai più, oh, mai più per me
risplenderà quella luce di Vita!
Mai più – mai più – mai più –
(è quel che il mare ripete
alle sabbie del lido) – mai più
rifiorirà un albero percosso dal fulmine,
nè potrà più elevarsi un’aquila ferita.

Vivo, trasognato, giorni estatici,
e tutte le mie notturne visioni
mi riportano ai tuoi grigi occhi di luce,
a là dove tu stessa ti porti e risplendi,
oh, in quali eteree danze,
lungo rivi che scorrono perenni.

Contributo di admin, 2 febbraio 2011 14:16.

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