Sono Tornata!
E’ da un santo giorno che ti aspetto!
Ho controllando le lancette delle ore
finché ebbi forza e sopportazione.
Mentre esse scandivano il tempo che passava,
la tua immagine, nitida e chiara,
dalla mia mente transitava.
Tanto da diventare impaziente
ma sapevo di non poter far niente.
Volevo stritolare quell’ingranaggio
per far scorrere il tempo adagio adagio.
Avrei voluto averlo tra le mani,
per qualche istante il tempo fermare,
Ma quell’ansia mentale gridava a più non posso
vedendo quel vuoto nel tuo posto.
Un po di sollievo volevo ritrovare,
ma l’insonnia non mi dette pace
fece di tutto per non farmi addormentare
Quel pensiero sempre su di te si andava posando,
e, con coraggio e con fermezza,
cercai di soffocarlo.
Forse sarebbe stato meglio non pensare
se quel malessere volevo acquietare.
E giratomi dall’altra parte pian pianino
incominciai un dolce sonnellino
Sazio e contento mi svegliai con un sorrisetto
ben felice di averti accanto in quel letto bello e caldo
ad ascoltare quelle tue dolce parole
che dicevano:
Buon giorno amore!
Dormito bene?
Autore.Domè
Questa poesia è stata scritta da altri autori. Lascia un tuo commento qui
UN POMERIGGIO D’INVERNO
La nebbia offusca gli sguardi,
offusca ogni pensiero però,
dietro la nebbia splende sempre il sole.
In un pomeriggio d’inverno,
l’aria gelida che ti punge le guance
tu vaghi senza meta.
La nebbia ti avvolge
la nebbia nasconde tutto
la tua tristezza
la tua solitudine
il tuo volto malinconico.
Tu cerchi,
cerchi un po’ di chiarezza
chiarezza che non trovi.
i tuoi pensieri sono fitti
cammini incerta
pensi incerta
pensi a quello che non hai più
pensi a un sole che non splende .
Eppure,
dietro a quella nebbia
Con un soffio de vento
Dietro a un sospiro profondo
Il sole risplende
risplende anche per te.
Autore: Maurizia 13/01/2011
Questa poesia è stata scritta da maurizia.vi. Lascia un tuo commento qui
Ecco ancora un elaborato inviatoci da Silvana1.ge : EUGENIO MONTALE (1896 – 1981)
Premio Nobel per la letteratura 1975
La poesia di Montale , essenziale, concentrata, usa un linguaggio nuovo: si avvale di continue
analogie, predilige parole inconsuete per esprimere una concezione della vita aspra, che riflette
pienamente la crisi esistenziale dell’uomo moderno, la sua angoscia senza speranza.
I caratteri fondamentali del suo linguaggio sono i simboli. Oggetti quali ad esempio il muro, che
rappresenta chiusura, oppressione; ma anche simboli positivi che alludono alla possibilità di
un’evasione, di libertà: il varco, la maglia rotta nella rete.
La realtà secondo il poeta è intrisa di sofferenza . Egli racconta la negazione, l’assenza,
un mondo privo di significato, condensato in paesaggi liguri riarsi, aridi, che rappresentano lo sfacelo rivelato dalla stessa natura . Descrive oggetti nei quali la vita sembra sospesa, metafore del vuoto interiore percepito come disperata pena esistenziale.
Il pessimismo di Montale è radicale. Vivere è come perdersi in una trama di gesti inutili, dietro i
quali vi è il nulla.
L’uomo del Novecento ha un destino di delusione e di incomunicabilità assoluta.
Non vi è alcuna fede politica o religiosa che possa liberare l’essere umano dal “male di vivere”, al quale viene contrapposto il concetto di “divina indifferenza”, ossia un dignitoso distacco dalla realtà. Tuttavia, se non è possibile trovare una risposta all’inutilità della vita, è, secondo il poeta, necessario conservare almeno la speranza di un miracolo, che riscatti tale condizione, rivelando il senso della vita. Questa apertura è evidente nei suoi versi dedicati al mare,visto come elemento positivo, autentica lezione di vita.
Anche il ricordo, che è il tentativo di individuare una continuità tra passato e presente, per dare un
significato profondo all’esistenza, appare sommerso dal tempo che passa, non più un’esperienza
individuale, intima.
La felicità, per Montale, è sempre al di là di un muro invalicabile, o sul punto di sfuggire a chi cerchi di afferrarla.
La poesia di Montale è poetica dell’inquietudine. Esprime la necessità da parte dell’individuo, di
riconoscere con dignità la propria fragilità ed incompiutezza.
……………………………………..
Non chiederci parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
………………………….
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, fruscii di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra i frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci di bottiglia.
……………………………………………..
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato di salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
……………………………….
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le rischiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
_____________________________________________
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tutt’ora, né più occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Questa poesia è un atto d’amore nei confronti della moglie non più al suo fianco. Traspare il senso dello sgomento di fronte al percorso terreno che deve ora affrontare da solo.
Essa è un muto dialogo, sommesso e pacato con cui Montale cerca di colmare il vuoto affettivo.
Si avvale di un linguaggio usuale, quotidiano che dà il senso dell’intimità domestica.
La scala è metafora di un suo avvicinarsi alla vecchiaia e alla morte ed accentua il senso di solitudine lasciatogli perdita della sua compagna di vita.
Elaborazione di Silvana1.ge
Questa poesia è stata scritta da altri autori. Lascia un tuo commento qui
Che strana l’umanità!
Abitiamo tutti lo stesso pianeta,
respiriamo tutti la stessa aria,
il cuore batte nel petto uguale per tutti,
l’obiettivo è uguale per tutti:
vivere…
Ma vivere non è uguale per tutti.
Per i più,
ogni nuovo sole che sorge,
sarà solo un altro giorno di lotta per la sopravvivenza,
un altro braccio di ferro con la malattia,
con la fame, con la violenza …con la morte.
Bambini miei,
resistete più che potete e …
chissà speriamo in un tempo non molto lontano
di potervi dare non solo il nostro ideale abbraccio e bacio,
ma risposte concrete,
reali, giuste …di DIRITTO.
Bambini miei …non è poi cosi impossibile sapete,
perchè la nostra felicità e il nostro sentirci a posto
dipende pure dalla vostra felicità e dal vostro benessere,
infatti come potremmo essere con il cuore libero e felice,
finchè anche l’ultimo bambino non lo sarà????
Addio piccoli che,
proprio in questo istante mentre io scrivo,
non ce l’avete fatta…!!
BUONA VITA ….A TUTTI…!!!!!
autore:semplice
Questa poesia è stata scritta da semplice. Lascia un tuo commento qui
Flavio.49, ci invia una presentazione del grandissimo Puskin, facendo la felicità di quanti apprezzano questo autore, e a chi si ferma, ben volentieri, a leggere in questo blog
PUSKIN, Alessandro Sergevich. – Nacque a Mosca nel 1799 e morì a Pietroburgo nel 1837 a soli 38 anni, vittima della condotta fedifraga della moglie, la bellissima Natalia Goncarova sposata nel 1831 che, si dice ma non se ne hanno le prove, lo tradisse sistematicamente sia con lo Zar Pietro il grande che con un ufficiale della guardia, certo Georges D’Anthès. Proprio quest’ultimo, sfidato a duello a causa di una lettera anonima, gli procurò la morte mediante una ferita al ventre che, prima della fine, lo tenne in agonia per un paio di giorni.
Ma non è il caso qui di parlare della vita di Puskin le cui vicende sono esaurientemente raccontate su Internet dove chiunque può prenderne visione.
Diremo solamente che proveniva da una famiglia nobile benestante e condusse una vita per niente tranquilla. Conduceva vita mondana, ebbe molti amori e ne subì anche qualche guaio per il rapporto con donne sposate a importanti funzionari pubblici.
Molti guai gli derivarono soprattutto dal suo carattere ribelle che gli procurò l’esilio e una frequente stretta sorveglianza da parte delle autorità e perfino una ingiusta censura.
Nemmeno è il caso di fare l’elenco delle numerose opere da lui prodotte anch’esse facilmente consultabili sul Web.
Ci si limiterà invece a delle brevi considerazioni sulla sua produzione letteraria.
Alcuni suoi lavori subirono l’influenza delle opere del poeta inglese Byron (Londra 1788-Missolungi Gracia 1824) che come lui ebbe vita molto breve, ricca di donne e avventure, caratterizzata principalmente da uno spirito romantico difficilmente riscontrabile nella morale di quei tempi.
Puskin scrisse di tutto, dagli scritti elegiaci alle odi, bellissime poesie alcune delle quali si riportano più avanti, e poi romanzi di alcuni dei quali si dirà in breve.
Dedicava bellissime liriche alle sue donne: II prigioniero del Caucaso, I fratelli masnadieri, La fontana di Bachcisarai, e Gli zingari.
Era uno spirito romantico ma anche realista un realismo, caratteri entrambi che hanno caratterizzato tutta la sua produzione letteraria.
Oltre alle stupende liriche per le belle donne scrisse anche poesie di carattere politico.
Ebbe un gran rispetto per l’Italia, conosceva benissimo gli artisti italiani e qualche cenno ne faceva nella poesia all’Italia già proposta in Eldy.
Nel complesso la sua è una lirica intrigante e coinvolgente, piacevolmente scorrevole che ti avvince e che si fa rileggere volentieri.
Si dedicò anche al lavoro teatrale ricalcando le orme del grandissimo Shakespeare: il Boris Gudonov, Il cavaliere avaro, e molte altre ancora.
Una leggera influenza esercitarono su di lui sia Goethe che Schiller, i più grandi scrittori e poeti tedeschi. Come Goethe infatti fu grande ammiratore di Shakespeare e esattamente come lui nella sua vita incontrò molte donne,considerando naturalmente il rapporto fra i suoi anni di vita (38 appena) contro gli 83 del poeta di Francoforte.
I suoi lavori ebbero un grande successo e moltissimi scrittori furono da lui ispirati.
Fu un artista romantico certamente il primo della grande letteratura russa.
Aveva però un difetto, troppe donne e troppi duelli non gli consentirono una esistenza tranquilla, il suo fu uno stile di vita che contrastava fortemente con lo spirito romantico che caratterizza tutta la sua produzione.
Proprio quel suo carattere lo portò alla morte.
E infine solo un cenno veloce su alcune delle opere più importanti di Puskin:
l’EVGENIJ ONEGIN (1833) è un romanzo in versi in parte autobiografico. Parla del modo di concepire la realtà nella Russia del tempo descrivendo in dettaglio i vari aspetti della vita.
LA FIGLIA DEL CAPITANO (1836) invece è un romanzo storico che racconta con molta ironia la Storia della rivolta di Pugacev. E’ riconosciuto dalla critica come una delle migliori creazioni di Puskin.
LA DAMA DI PICCHE o La donna di picche è un componimento delizioso che mi ha affascinato la prima volta che l’ho letto. Ricorda certe opere del nostro grande Eduardo De Filippo. Qui con uno stile brioso e scorrevole Puskin parla di questo giovane che non gioca per timore di perdere tutto ma si ricrede quando pensa di aver ricevuto dalla dama di picche i numeri segreti per vincere. Appena apprende che era solo una illusione, impazzisce per la profonda delusione.
Elegia
Degli anni folli la già spenta gioia
come una cupa ebbrezza mi dà noia,
ma come il vino, o antico mio dolore,
più invecchi, più ti fai forte nel cuore.
Il mio cammino è triste. Un fato oscuro
m’annunzia il grigio mare del futuro.
Ma io non voglio, amici miei, morire,
io voglio ancora vivere e soffrire.
So che troverò sempre un po’ di bene
in mezzo alle amarezze ed alle pene;
m’inebrierò di nuovo d’armonia,
lacrimerò su qualche fantasia,
e forse brillerà al tramonto mio
l’amore come un sorridente addio.
Versi d’album
Che c’è per te nel nome mio?
Morirà esso come il grido
d’un’onda infranta contro il lido,
come in un bosco un mormorio.
Lascerà sulla carta muta
un’orma pallida ed eguale
a un’iscrizione sepolcrale
in una lingua sconosciuta.
Che c’è per te? Scordato ormai
in tanti affanni nuovi e gravi,
invano tu vi cercherai
memorie tenere e soavi.
Ma tu pronunzialo nel triste
giorno in cui il male si ravviva;
di’: il mio ricordo ancora esiste,
c’è ancora un cuore ove son viva.
La stella della sera
Si dirada volando la nuvola leggera.
Malinconica stella, o stella della sera!
Inargenta il tuo raggio le squallide pianure,
il golfo sonnolento e le montagne scure.
Amo il tuo fioco lume nell’aria trasparente;
esso ha in me risvegliato un pensiero dormente
ricordo il tuo tramonto, o astro prediletto,
sovra un dolce paese sempre caro al mio affetto,
dove nelle vallate s’alzano i pioppi fieri,
dove dormono i mirti ed i cipressi neri,
ed i tiepidi flutti sussurrano soavi.
In quei monti col cuore pieno di sogni gravi
distraevo sul mare l’indolenza pensosa:
scendeva sopra i tetti la tenebra gelosa,
e una giovane donna me nell’ombra cercava
e te col proprio nome alle amiche chiamava.
Inno alla peste
Quando l’inverno, vigoroso
come un guerriero, sotto i cieli
guida l’esercito villoso
delle sue nevi e dei suoi geli,
di fuochi fervono i camini,
di luci splendono i festini.
Regina orribile, la Peste
viene da noi con passo forte,
chiamata dalla messe agreste,
e bussa a vetri muri e porte
con il badile della bara:
chi ci consiglia o ci ripara?
Cerchiamo scampo dalla morte
come dal brivido invernale!
Chiudiamo rapidi le porte,
versiamo il vino nel boccale,
ed in conviti danze e feste
cantiamo il regno della Peste!
C’è una allegrezza grande e bella
sull’orlo estremo della rupe,
nell’oceanica procella
tra flutti immensi e nubi cupe,
nelle sahariche tempeste
e nel respiro della Peste.
Ciò ch’è dannato a perdizione
pei nostri cuori in sé nasconde
un’inesausta seduzione,
pegno di gioie più profonde…
Beato chi nella sua noia
potè trovare questa gioia.
Gloria a te. Peste! La paura
ignota c’è del tuo richiamo
e dell’oscura sepoltura.
E nel tuo aroma noi beviamo,
o Rosa-Vergine celeste,
forse anche il fiato della Peste!
All’Italia
Chi conosce la terra dove il cielo
d’indicibile azzurro si colora?
dove tranquillo il mar con l’onda sfiora
rovine del passato?
dove l’alloro eterno ed il cipresso
crescon superbi? dove il gran Torquato
cantò? dove anche adesso
ne la notte profonda
i canti suoi va ripetendo l’onda?
la terra ove dipinse Raffaello,
dove gli ultimi marmi
animò di Canova lo scalpello
e Byron rude martire ne’ carmi
dolore, amore effuse e imprecazione?
Italia, terra magica, gioconda
terra d’ispirazione!
il demone
Al tempo che nuova scoprivo
dell’esistenza ogni impressione:
begli sguardi, fruscio boschivo,
di notturno usignolo canzone –
quando sublimi sentimenti,
amore, gloria e libertà,
nel sangue urgevano ferventi
con la poetica ebrietà,
gioie e speranze imprevisto
un cupo dolore guastò:
segretamente un genio tristo
a visitarmi cominciò.
Nei nostri mesti appuntamenti
mi ammaliava, mi sorrideva:
coi suoi discorsi pungenti
freddo veleno m’infondeva.
Quasi a indurla in tentazione
calunniava la Provvidenza;
chiamava un’illusione il bello;
disprezzava l’ispirazione;
libertà e amore rinnegava;
guardava alla vita con scherno;
e niente in tutta la natura
a benedire si piegava.
Sera d’inverno
La bufera il cielo ottenebra,
venti di neve turbinando;
come belva ulula adesso,
ora piange come un bambino,
ora sul tetto sconnesso
la paglia, ecco, fa frusciare,
ora, tardo pellegrino,
al finestrino è qui a bussare.
La nostra annosa casetta
è tutta buia e mesta.
E tu perché, o mia vecchietta,
sei ammutolita alla finestra?
della bufera l’ululio,
amica mia, ti ha affaticata,
o sonnecchi dal ronzìo
del tuo arcolaio appisolata?
Beviamoci su, amica cara
della povera mia giovinezza:
beviamo tristi – qua il bicchiere!
Il cuore ne avrà allegrezza.
Cantami tu la cingallegra
che viveva di là dal mare;
cantami tu quella ragazza
che alla fonte doveva andare.
La bufera il cielo ottenebra,
venti di neve turbinando;
come belva ulula adesso,
ora piange come un bambino.
Beviamoci su, amica cara,
della povera mia giovinezza:
beviamo tristi – qua il bicchiere!
Il cuore ne avrà allegrezza.
A-“‘”
Ricordo il magico istante:
davanti m’eri apparsa tu,
come fuggevole visione,
genio di limpida beltà.
Nei disperati miei tormenti,
nel chiasso delle vanità,
tenera udivo la tua voce,
sognavo i cari lineamenti.
Anni trascorsero. Bufere
gli antichi sogni poi travolsero
scordai la tenera tua voce,
i tuoi sublimi lineamenti.
E in silenzio passavo i giorni
recluso nel vuoto grigiore,
senza più fede e ispirazione,
senza lacrime, né vita e amore.
Tornata è l’anima al risveglio:
e ancora mi sei apparsa tu,
come fuggevole visione,
genio di limpida beltà.
E nell’ebbrezza batte il cuore
e tutto in me risorge già –
e la fede e l’ispirazione
e la vita e lacrime e amore.
Viaggiando d’inverno
Dentro la nebbia a onde
si fa strada la luna,
una mesta luce effonde
sulla mesta radura.
Sulla noiosa via d’inverno
va la trojka baldanzosa,
tintinna la campanella
monotonamente affannosa.
Qualcosa di familiare
è nel canto del postiglione:
ora baldoria che avvampa,
ora dolore del cuore…
Non c’è un nero di capanna,
non c’è un fuoco… Vuoto e neve…
Soltanto i pali delle miglia
sopravvengono incontro a me.
Noioso, triste… Ma domani,
domani, Nina, da tè sarò,
non smetterò più di guardarti,
presso il camino tutto oblierò.
Poi la lancetta delle ore
il suo giro concluderà,
allontanando gli importuni
la mezzanotte ci unirà.
Triste e noiosa, Nina, è la via,
il postiglione si è appisolato,
la campanella è una litania,
il volto della luna è annebbiato.
Elaborato da Flavio.49
Questa poesia è stata scritta da flavio:46. Lascia un tuo commento qui