Poesie di Eldy

Luigi Pirandello

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Luigi Pirandello: Presentato da  Antonino8.pa

Luigi Pirandello, drammaturgo, scrittore e poeta italiano, nato ad Agrigento il 28 giugno 1867, morto a roma il 10 dicembre 1936, premio Nobel per la letteratura nel 1934.
Credo che oggi siano davvero poche le persone che non lo conoscono o non abbiano sentito parlare o hanno letto qualcuna delle sue opere.
A partire dal primo romanzo ” Il fu Mattia Pascal ”
Ma il vero successo arrivò nel 1922, quando si dedicò completamente al teatro, spinto in tal senso, dall’amico Nino Martoglio. Infatti lo scrittore aveva rinunciato a scrivere opere teatrali, ma Martoglio lo convinse a mandare in scena alcuni suoi lavori: Lumia di Sicilia e l’Epilogo atti unici scritti da Pirandello nel 1982, e che ebbero un discreto successo nel dicembre del 1910.
Ma quello che questa volta desidero evidenziare non sono le commedie scritte da Pirandello, bensì le sue poesie, forse la parte meno conosciuta dei suoi scritti, che a me dà tanto e che credo sia una ricchezza e un arricchimento per chiunque ha occasione di leggerle. Queste quelle che preferisco.

ELEVAZIONE

Com ’aquile avvolgenti a un brullo monte
corone ampie con l ’ali poderose,
larve di gloria in torno a la mia fronte
si raccolgon superbe, e scudo a l ’onte
mi son dei fati avversi e de l’irose
passïoni terrene ed altre cose
le virtú richiamando, accorte e pronte.

Fermo l ’animo a loro, io vo seguendo
questo acuto desio che mi conduce
de la ragione a le piú alte cime.

E con molto pensier, sereno, ascendo,
che d ’esser nato la perfetta luce
mi consoli sul vertice sublime.

DEPRESSIONE

Atomo umano, enorme è la natura.
L ’esser t ’investe e ti trascina. Invano
contenerlo vorresti: ei non ti cura,
ei va per le sue vie, atomo umano.
Io piú sitir non vo ’ la sorte oscura
de l ’avvenire: come un uragano
nel passato ei rovesciasi e s ’oscura,
tutto vorando l ’esser nostro vano.

Spengonsi a lento ormai nei polsi bassi,
e nel cervel, cui fanno assedio i dubî,
le fantastiche febri del desio.

Atomo umano, guarda in ciel le nubi:
estraneo a tutto sei, estraneo passi.
Scenda pei sogni miei, scenda l ’oblio.

FRAMMENTO

E pur cantando m ’avvien di pensare
quel che m ’ingegno cantando obliare;
e per ciò canto, che scordi il dolore
e il mal d’amore;
ma ahimè, piú canto e piú me ne sovviene,
però che al labro null ’altro mi viene
che suon di pene;
ond ’è, guardate, il vero, ed appar bene,
ch ’io porto, o Donna, in cor l ’effigie vostra,
la qual gastiga mia ragione e prostra.

Ma già che amor mi vuol tanto onorare,
ch ’entro del core mi fa voi portare,
di grazia, me ’l guardate da l ’ardore:
che ben maggiore
di voi timor, che non di me mi tiene.
Pensate, o Donna, il mio cor vi contiene,
se mal gli avviene,
dentro vi state, e soffrir vi conviene.
Fate però ciò ch ’util vi si mostra,
guardate il cor come la casa vostra.

ANDANDO

A ciò che addietro nell ’andar ti lasci
non badi ancora, poi che ti concede
di guardar oltre il tempo e innanzi fasci
di speranze t ’accende, a cui tu miri.
Vai, cosí rischiarato, ove d ’un sogno
la tentatrice immagine t ’attiri
o lo sprone ti spinga d ’un bisogno,
e non ti senti la catena al piede.

Nulla intanto hai davanti: un ’ombra vana,
un inganno mutevole, una meta
che quanto piú t ’accosti, s ’allontana.
Ma non ancor per te scoccata è l ’ora
di volgerti a guardar dietro, nel breve
cammin percorso, e innanzi si colora
l ’avvenir tanto piú quanto piú lieve
è il passato che ancor non t’inquïeta.

Pur verrà giorno che ti sentirai
cosi forte chiamar dietro le spalle
donde non puoi far piú ritorno mai,
che per te diverrà fievole, muto
ciò che innanzi t ’invita, e da te stesso
a guardar ti porrai quanto hai perduto.
Le rose che ti risero da presso
e non curasti, ecco or lontane e gialle.

E con le terga ormai verso il futuro
e gli occhi assorti nel cammin percorso
andrai, men lieto quanto piú sicuro,
riallacciando ognor piú da lontano
le fila che correndo avrai lasciate
sospese, fino a che non apra il piano
d ’improvviso una fossa alle gravate
membra, e insieme al rimpianto od al rimorso.

NOTTE INSONNE

Io mi sento guardato da le stelle
e questa notte non posso dormire.
Mi par che qualche cosa esse, sorelle
maggiori, a questa terra voglian dire.

O sorgive di luci, la parola,
la parola tremenda del mistero
ditela a una vegliante anima sola
perduta in mezzo al vostro cielo nero.

So che dovrei di ciò ch ’è in terra solo
occupar la mia mente e i desir miei;
ma tu piú forte d ’ogni intento sei,
ciel che l ’anima mia rapisci a volo.

Tutte le fonti della vita insieme
non avran mai poter di saziare
l ’ardentissima sete, e sempre amare
avrò le labbra e vigile la speme,

ben che ognora delusa. O di basalto
funebre cielo, invano ti martella
il mio pensiero; invano si ribella
in terra, invano si rifugia in alto.

È l ’antica paura, è l ’appassito
istinto della fede, o questa nuova
smania, alla quale nessun tetto giova,
che mi spinge a cercar nell ’infinito?

Io di qua giú, di questa terra breve,
di cui ben sento la viltà dinnanti
a te, che cerco? – Un suon di chiari canti
dal bujo vien della vicina pieve.

Si prega lí, si prega per la vita
e per la morte: ardon votivi ceri
su un altar ben parato e gl ’incensieri
fuman sotto un ’imagine scolpita.

A chi mentí la vita, a chi la terra
non concesse una sola primavera,
a chi riposo non cercò la sera,
ma il tempo, senza tregua, o insidie o guerra,

tu solamente, o ignoto ciel, rimani;
e a te su i sassi della terra infida
ogni dolore s ’inginocchia e grida:
lacriman gli occhi e tremano le mani.

Alla porta del sogno in cui, riparo
a gli amor miei cercando, mi son chiuso,
siccome in un castello aurato e chiaro
qual le fate inalzarne aveano in uso,

batton le cure pallide, impedite
le membra da un intrico di catene;
“Il mondo ti reclama: apri. L ’immite
ora ti vieta un solitario bene”;

batton, pregando esaudimento, i brevi
desiderî, e tentandomi: «È qua giú
la tua radice: se per lei non bevi,
cadrà la cima ove t ’annidi tu»;

e batton i bisogni, delle cure
ancor piú schiavi: «Apri: sfuggir non puoi
al comun fato. Giú, folle, tu pure,
la tua catena a trascinar fra noi ».

Le leggi a un palmo qui dal fango stanno:
corde livellatrici, a cui chi striscia
sfugge sotto e da cui chi non è biscia
ha d ’inutili ceppi iroso affanno.

E neppur un capel torcono ai nani.
Il nano passa lieto: dalla rete
nelle sue voglie sobrïe, discrete,
si tien protetto e si frega le mani.

Or se con strappo di possente piede
non ti sgombri il cammino alla piú lesta,
o tu ti pieghi o mozza avrai la testa:
altrimenti qua giú non si procede.

Non tollerano ponti solo i mari;
su l ’alpe eccelsa non s ’erigon case,
o dalle nevi seppellite o rase
sono dalle tempeste aquilonari.

L ’anima or segue nella notte il fiume
che dal grembo di Roma già silente,
siccome enorme placido serpente,
svolgesi della Luna al freddo lume.

Chiama da lungi con assidua voce
il tenebroso palpitante mare;
l ’anima pensa al vano suo passare,
s ’affretta il fiume alla solvente foce.

CROLLO

Rido se vedo un bimbo che la mano
schiuda nel vuoto,
credendo di posarvi un qualche oggetto;
non rido piú se noto
che a me pur similmente accade
che nel vano del tempo crolli ogni desio nascente,
ogni nascente affetto.

TRAMONTO

— Di foco all ’orizzonte il ciel si fascia,
lento al tramonto il sole si riduce.

O tu che del mister sforzi le porte,
guarda! Di qua le tenebre egli lascia,
reca di là d ’un nuovo dí la luce.

Ebben, chi sa? forse cosí la morte.

SETTEMBRE

Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.

Elaborato da antonino8.pa

Contributo di admin, 14 gennaio 2011 02:40.

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