Parafrasando una famosa canzone di Luco Dalla “noi che siamo di Genova “il mare lo abbiamo nel DNA.
E chi come me arrivava a Genova dalla perifriferia verso i monti, si trovava all’improvviso uno spettacolo meraviglioso: una distesa di navi alla fonda che pazientemente aspettavano giorni e giorni per poter attraccare al molo , essere scaricate e poi ripartire per altri mesi di mare attorno al mondo.
Il porto brulicava di persone: era un formicaio. Marinai, operai, affaristi, falegnami, tubisti, brasatori,
Gente scalza e persone col turbante, facce bruciate dal sole ; neri coi capelli ricci e gli occhi rossi che per un ragazzo di quattordici anni come me era impossibile non guardare meravigliato.
Pasquale quella mattina mi disse:< Nan, oggi vieni con me, andiamo a bordo>.
Era una specie di parlare in codice. Non era necessario specificare. Sentirsi dire NAN da un anziano era un complimento, dire andiamo a bordo significava che quella mattina saremmo usciti dall’officina e passando per i carrugi di Genova, saremmo entrati in porto. Solo pochi eletti lo potevano fare: c’era la Guardia di Finanza e la Polizia che controllavano gli ingressi. Ero con Pasquale….. ero con lui, lo accompagnavo su di una nave.
Nessuno mi guardava, nessuno mi diceva NAN. Questo significava una cosa: mentre ci avviavamo fra le calate tra casse, sacchi di caffè, enormi mucchi di carbone, cataste di tronchi enormi, se nessuno notava che ero un ragazzino significava che ero uno come loro: Ero un uomo. Ero grande.
<Vieni, siamo arrivati, è questa> mi disse. Erano le uniche parole che pronunciava da quando mezz’ora prima avevamo lasciata l’officina.
Salendo su per lo scalandrone mi disse:< Stanni attento a no scuggiâ, chi ghè tûttû untu> .
Infatti era una piccola petroliera con un odore terribile che prendeva alla gola e tubi di tutte le dimensioni che attraversanano la nave in tutte le direzioni costringendomi a guardare dove mettevo i piedi invece di curiosare come avrei voluto.
<Aspetime chi> mi disse infilandosi dentro una porticina di ferro.
Sentivo la nave tremare con un rumore sordo, continuo, monotono. I motori erano sempre accesi.
Mi guardavo attorno, curioso, orgoglio, meravigliato- Sono rimasto per un po’ a guardare le enormi gomene arrotolate con cura e immaginavo di arrivare io in porto a prua della Mia nave e lanciare la sagola a terra al marinaio che avrebbe ancorato la Mia nave alla bitta.
Non mi aveva detto cosa saremmo andati a fare sulla nave: ero convinto che avesse bisogno di riparazioni e che Lui e io l’avremmo riparata.
Non so quanto aspettai Pasquale ma ricordo che il tempo fu suffiente per osservare tutto. Tutto quello che si poteva vedere da dove mi aveva detto< aspetta qui>
Quando tornò aveva una scatola di legno lucido e scritte che parevano d’oro in mano:<E’ una bussola questa> mi disse, quella del Capitano. <Sei capace di portarla senza farla cadere?>
Ecco che in un attimo tutto il mio sogno è svanito: ero solo un ragazzino a cui si facevano raccomandazioni.
Contributo di
, 28 gennaio 2010 10:57.
Alfred, nelle tue descrizioni spesso hai il potere di farci condividere tutte le tue emozioni e così bene: fai salire anche noi su quella nave, li vediamo tutti quegli uomini al lavoro e le cime e le bitte,tutto così preciso. Grazie di aver voluto metterci a parte dei tuoi ricordi.
be come potevo mancare !anche se non ci conoscevamo abbiamo vissito la stessa epoca etu come sempre sei riuscito afarmela rivvivere come un film, sei fantastico, nella tua semplicità
alfred che dire…….bravissimo…